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11/06/2012 14:55 | |
Siccome il discorso è materia vasta e complessa, cercherò di fare il mio meglio, ma le differenze sono tali e tante che non mi stanno in un unico post, abbi pazienza.
Testo nascosto - clicca qui Sino a tutto l’VIII secolo, la Chiesa professa ovunque la stessa fede ed è organizzata in cinque patriarcati: Gerusalemme, Antiochia, Alessandria, Costantinopoli, Roma. Esiste un solo Stato: l’Impero romano, con un solo imperatore che risiede nella capitale, Costantinopoli, la Nuova Roma fondata nel 331 da San Costantino.
Per sottrarsi al controllo dei barbari Longobardi che, da Pavia a Benevento, hanno invaso la penisola italiana, il papa di Roma Antica si rivolge ai barbari Franchi e il 25 dicembre dell’anno 800 incorona “imperatore romano” il re franco Carlo Magno.
E’ la secessione, uno scisma politico: le barbare tribù dei Franchi entrano in concorrenza con l’Impero romano che, perciò, preferiscono chiamare "greco" o "bizantino".
Il Papa, al momento, esercita la sua influenza solo su Francia, Germania e parte del Centro-Nord dell’Italia: è inevitabile la rapida franchizzazione delle Chiese dell’Occidente. Per quasi un millennio, tutti i Papi erano stati romani (proprio de Roma, oppure di Grecia, Siria, Sicilia e Grande Grecia): nel 996 il re germanico Ottone riesce a far eleggere suo nipote (Gregorio V), un principe austriaco, appena ventenne. Una continua “Riforma” allontana rapidamente la cristianità occidentale dalla comunione tra tutte le altre Chiese, per trasformarla in una Chiesa Nazionale (della Nazione, della Gente franca).
L’antico canto romano, per esempio, è sostituito dalle mode musicali di Aachen (la città tedesca dov’è la reggia di Carlo Magno), spacciate come antiche e falsamente attribuite a san Gregorio il Grande (Canto gregoriano); così è anche per gli usi liturgici franco-germanici, che soppiantano l’antico Rito romano-latino. Intanto, in Occidente non si capisce più il greco, la lingua della Sacra Scrittura e dei primi teologi, i Padri della Chiesa. Successive, continue, riforme portano sempre più lontano dalla Chiesa ortodossa (da ortos e doxa: esatta fede) i cattolici, scomunicati sin dai tempi del patriarca di Nuova Roma Michele I Cerulario (1043\59): l’imbarbarimento prosegue anche in campo teologico e nel 1245 (a Lyon, in Francia) il Papa di Roma Antica porta a compimento lo scisma, lo strappo dei Franco-cattolici da tutte le altre Chiese del mondo.
Per espandersi, i Franco-cattolici dapprima invadono l’attuale Italia Meridionale; con le Crociate creano poi loro principati in tutta la parte orientale dell’Impero. Appoggiandosi quindi alle Potenze commerciali (Venezia e le altre Repubbliche marinare) e militari (Francia, Spagna), il cattolicismo cresce numericamente, anche grazie alle scoperte geografiche e alla conseguente colonizzazione di Americhe, Filippine, Indie, ecc. Il potente Sacro Romano Impero e l’integralista Spagna costringono, infine, alcuni ortodossi a unirsi al Vaticano, pur conservando molte usanze della Chiesa ortodossa (Uniati sono, ad esempio, gli Albanesi che si stabilirono attorno Cosenza e Palermo quando l’Italia Meridionale era colonia spagnola).
Da piccolo gruppo, i cattolici sono passati così in maggIoranza anche perché la Chiesa ortodossa ha subito dure persecuzioni sotto i Musulmani, i quali in molti territori hanno quasi del tutto cancellato il cristianesimo e, poi, sotto i regimi atei marxisti e durante le occupazioni di Tedeschi e Italiani durante la II Guerra Mondiale.
Ridotta così in minoranza, la Chiesa Ortodossa è riconosciuta, tuttavia, come la “Chiesa dei Sette Concili Ecumenici”, l’autentica Chiesa Antica: del resto, ortodossia vuol dire proprio “autentica fede”. Gli ortodossi possono essere definiti cristiani all’antica. Tra prove tremende, gli ortodossi hanno conservato intatta la fede degli Apostoli, dei Martiri e dei Padri, senza omissioni, senza aggiunte, senza variazioni.
"Cattolica": il senso del termine
La differenza di nome ("Chiesa cattolica" e "Chiesa ortodossa") non deve far pensare a marchi depositati. Gli stessi ortodossi, spesso, si definiscono "Chiesa Cattolica Ortodossa" o "Chiesa Cattolica Ortodossa dell'Est". La coscienza ecclesiale ortodossa rifiuta un'identificazione tra "cattolicesimo" e "sede romana" come se questi termini fossero indispensabilmente legati l'uno all'altro.
Nel definirsi "cattolici", gli ortodossi usano il termine nella radicale convinzione di essere la Chiesa "una, santa, cattolica e apostolica", in cui professano la fede quando recitano il Credo.
"Cattolica", com'è noto, viene di solito tradotto in italiano con la parola universale, ma esistono sfumature di significato che rendono il termine più profondo e ricco di quanto sembri a prima vista. Il greco katholikà (che letteralmente significa "secondo il tutto") può significare anche una "universalità interiore" (nel senso di globalità che contiene tutta la verità nella sua pienezza) oppure un principio di conciliarità o sinfonicità di Chiese locali (espresso con forza dalla traduzione slava sobòrnaia). Una universalità vista nel puro senso di disseminazione geografica, di notorietà mondiale, o di superiorità numerica (argomenti spesso usati dalla Chiesa romana per avallare la propria posizione) ha poco senso per l'Ortodossia, se non è accompagnata da una "cattolicità" di fede inalterata.
Il fatto stesso che il mondo latino, pur sottolineando i significati "quantitativi" di universalità, abbia preferito usare per la Chiesa il termine greco catholica piuttosto che quello latino universalis, fa pensare che il senso di "cattolicità" mantenuto nella Chiesa ortodossa sia più prossimo alla coscienza ecclesiale originaria.
Il nome "cattolica", per di più, non ha solo una dimensione filologica, ma anche una molto pratica e tangibile nel diritto internazionale. Nella lista delle religioni mondiali presso le Nazioni Unite, l'entità nota come "Chiesa cattolica" è registrata sotto il nome di Chiesa cattolica romana, mentre quella nota come "Chiesa ortodossa" è registrata sotto il nome di Chiesa cattolica ortodossa.
La Bibbia
Nell’Occidente medievale - che non capiva più il greco - si diffuse un nuovo testo della Sacra Scrittura. Non era il testo usato sin dai tempi di Cristo, da Cristo stesso e dagli Apostoli, ma una traduzione realizzata dal dotto Girolamo (347 \419). Girolamo aveva utilizzato testi che circolavano al suo tempo, ma senza sapere che erano stati confezionati solo nel 2°\3° secolo dopo Cristo, da Ebrei che volevano eliminare (o nascondere) i riferimenti a Cristo che si leggono sin dalle prime pagine della Bibbia: i Franchi ne diffusero l’uso al solo scopo di utilizzare un testo diverso dagli altri cristiani. Il testo che oggi usano i cattolici non segue più neppure la Vulgata (la versione di Girolamo), ma il Masoretico (un manoscritto ebraico - il “Codice di Pietroburgo” - che è appena del 1008 dopo Cristo).
Canoni
I Santi Canoni, composti come guide o regole della Chiesa dagli apostoli, dai Santi Padri, e da Concili ecumenici e locali, sono applicati nella Chiesa ortodossa dall'autorità del vescovo, che ha l'opzione di interpretarli secondo una posizione severa (acrivìa) oppure misericordiosa (economia) a seconda dei casi (la severità è la norma). L'Ortodossia non vede i canoni come leggi che regolano le relazioni umane o che salvaguardano diritti umani, ma piuttosto come mezzi per forgiare la "nuova creatura" attraverso l'obbedienza. Sono addestramento alla virtù, e fonte di santità, ed è per questo che nella Chiesa ortodossa non possono essere ignorati o scartati, anche se alcuni (generalmente delle semplici specificazioni di canoni antichi) possono essere aggiunti di tanto in tanto. Roma può permettersi, a ogni cambiamento di circostanze esterne, di mutare i propri canoni per tenerli al passo con i tempi, e di ignorare quelli antichi. L'Ortodossia, ritenendo i canoni ispirati dallo Spirito Santo, e consapevole dell'immutabilità dei veri problemi e necessità umane, non può condividere questa linea.
Agostino di Ippona e la sua teologia
Pur non avendo obiezioni sulla santità personale di Agostino di Ippona, sulla sincerità della sua conversione e sulla ricchezza umana e profondità del suo impegno per Cristo, l'Ortodossia ritiene le sue conclusioni teologiche per lo meno potenzialmente fuorvianti e pericolose.
Questa è la ragione per cui numerose chiese ortodosse preferiscono usare il termine "Beato Agostino", escludendolo dal novero dei santi universali, pur ponendolo tra i giusti, anche per l'umiltà di avere affidato alla Chiesa il compito di correggere gli errori riscontrati nei suoi scritti.
La posizione delle singole chiese ortodosse nei confronti di Sant'Agostino non è univoca (curiosamente, furono proprio i grandi difensori della fede ortodossa, come San Fozio e San Marco di Efeso, a tenerlo in maggiore stima e venerazione), ma certamente l'Ortodossia non lo pone tra i maggiori Padri della Chiesa, men che meno al primo posto, come la Chiesa cattolica romana ha sempre tendenzialmente fatto.
Questo non è il luogo per un'analisi delle possibili deviazioni della teologia agostiniana, ma possiamo brevemente elencare i punti che l'Ortodossia ha ritenuto più pericolosi:
1) una diminuzione dell'enfasi sull'aspetto personale della Santissima Trinità, che riduce le persone a semplici "relazioni" dell'unica essenza divina;
2) l'adozione di una concezione pessimistica sul peccato originale;
3) una tensione esagerata nella dialettica tra natura e grazia.
Il primo punto è stato tra le cause della nascita di concezioni impersonali della divinità (deismo); gli altri due sono alla base della lunga querelle tra Cattolicesimo romano e mondo protestante.
La concezione agostiniana del peccato come eredità di natura ha esercitato una straordinaria influenza sulla teologia occidentale; secondo il pensiero patristico dell'Oriente, invece, solo l'intelletto libero e personale può commettere peccato, che non è mai un atto di natura. Il peccato di Adamo apre le porte alla mortalità, e all'ottenebramento delle passioni, ma questa colpa ancestrale (come del resto la salvezza) può realizzarsi in ogni persona solo coinvolgendo la sua libera volontà.
Questo contrasto si è fatto acuto nella polemica sul destino dei bambini non battezzati, che per Agostino restano comunque eredi della colpa, e riguardo al tema dell'Immacolata concezione (q.v.), che per l'Ortodossia è privo del fondamento di una vera e propria colpa ereditaria da cui Maria sarebbe stata preservata.
E' opportuno altresì ricordare che per la teologia occidentale, per la quale la caduta di Adamo avvenne da uno stato di grazia e conoscenza, la colpa originale è valutata con parametri diversi da quelli dei Padri orientali, per i quali Adamo cadde da uno stato di ignoranza innocente.
Padri della Chiesa
La dottrina cattolico-romana fissa un limite temporale all'età dei Padri della Chiesa: perché si possa parlare di Padri, si richiede per loro, oltre ai requisiti della santità, dell'ortodossia dottrinale e dell'approvazione ecclesiastica, anche quello dell'antichità. Dopo un certo periodo, fissato per lo più al tempo di Sant'Isidoro di Siviglia (c.560-636) per l'Occidente, e di San Giovanni Damasceno (c.675-749) per l'Oriente, la Chiesa non produce più Padri, ma, tutt'al più, Dottori. La distinzione non è solo a livello terminologico: il Padre, per sua stessa funzione, "genera" o "forma" una dottrina (traendola, beninteso, dalla fede apostolica), mentre un Dottore la "sviluppa" o la "sistematizza".
La Chiesa ortodossa, d'altro canto, ritiene assurdo definire chiusa l'epoca dei Padri, come se si trattasse di un ciclo di eventi passati. Anche nella nostra epoca, o in un lontano futuro, Dio può suscitare nella Chiesa dei personaggi che possono ricoprire lo stesso ruolo dei Padri del passato. L'acquisizione di una mente patristica, ovvero una comunione di intenti e di spirito con i Santi Padri, è del resto una meta costante dell'ascesi monastica ortodossa.
Sostenere che l'età dei Padri è chiusa, peraltro, equivale ad affermare che lo Spirito Santo ha abbandonato la Chiesa, non avendo più il potere di produrre persone in grado di "formarla".
Teologia
La comprensione cattolica romana della teologia è che si tratti di una vera scienza, che usa come principi le verità sicure e fondate della Rivelazione divina, e trae da queste nuova conoscenza (conclusioni teologiche) con un metodo strettamente scientifico.
La comprensione ortodossa della teologia è che questa comprenda la partecipazione attiva e cosciente nella percezione delle realtà del mondo divino: in altre parole, la realizzazione di una conoscenza spirituale. Essere un teologo nel senso pieno, pertanto, presuppone l'ottenimento di uno stato di tranquillità (esichìa) e mancanza di passioni (apatìa), che accompagnano la preghiera pura e non distratta, e pertanto richiede doni conferiti a pochissime persone.
La tradizione ortodossa definisce ufficialmente "teologi" soltanto tre santi: Giovanni l'Apostolo ed Evangelista, Gregorio di Nazianzo, e Simeone il Nuovo Teologo.
Scolastica
Il sistema teologico della scolastica, originatosi nel Medioevo latino e rimasto tuttora il motivo conduttore della speculazione teologica cattolico-romana, mira soprattutto a formulare le ragioni della fede cristiana di fronte a qualsiasi obiezione o interrogativo.
Una delle obiezioni metodologiche mosse dagli ortodossi è che un sistema che pretenda di dare tutte le risposte scivola presto nel razionalismo, e la dimostrabilità della verità si sostituisce come criterio alla verità stessa.
Chiesa docente e discente
La Chiesa romana ha sempre avuto grande cura di definire le funzioni dei propri fedeli nei vari ruoli della vita ecclesiastica. In particolare, una netta distinzione ha caratterizzato l'orizzonte dottrinale del Cattolicesimo romano: quella tra Chiesa "docente" (coloro che sono preposti al compito dell'insegnamento e della trasmissione del deposito della fede, storicamente il Papa e i vescovi, o prelati equiparati ai vescovi, in comunione con il Papa) e Chiesa "discente" (coloro che apprendono la dottrina, ovvero tutti gli altri cristiani, inclusi i preti, che pure hanno il mandato della predicazione). Questa suddivisione è stata causa di profonde fratture psicologiche tra i fedeli, incoraggiando un tipo di gerarchizzazione collegato al ruolo didattico.
L'Ortodossia, d'altro canto, ha sempre rifiutato la distinzione tra Chiesa docente e discente: il compito di apprendere, insegnare e vigilare sulla fede appartiene a tutti i fedeli, e il rispetto per singole figure di monaci e chierici di particolare cultura e profondità non va in alcun modo confuso con il rispetto per i membri del clero in quanto celebranti dei Misteri di Cristo, o per i membri dell'ordine monastico in quanto cristiani impegnati in una vita radicale dei principi evangelici.
Il Calendario
Per distinguersi da tutti gli altri cristiani, i Franchi decidono di celebrare la Pasqua a una data diversa da quella della Chiesa universale. Nel 783, per esempio, tutti celebrano la Pasqua l’11 aprile e Carlo Magno il 18; nel 786 la Pasqua cade il 23 aprile e i Franchi la celebrano un mese prima, il 26 marzo, e così via: è una fissazione, quella di distinguersi da tutti gli altri cristiani. Nel 1581, infine, Ugo Buoncompagni (papa Gregorio XIII) modifica il calendario, che si diffonde rapidamente negli Stati cattolici e nelle loro colonie. Risultato: il mondo occidentale spesso celebra la Pasqua una o cinque domeniche prima di tutti gli altri cristiani.
La maggioranza numerica degli ortodossi nel mondo (Russia, Bielorussia, Ucraina, Georgia, Serbia, il Monte Athos, Gerusalemme e il Monte Sinai, con le numerose dipendenze di questi ultimi tre, oltre a una consistente parte degli ortodossi polacchi, cechi, slovacchi e dei Paesi Baltici, e molte comunità della diaspora) segue ancora il tradizionale calendario giuliano per il computo delle feste, in ritardo di circa due settimane rispetto al calendario civile. Le altre chiese ortodosse autocefale, a partire dal 1924, hanno introdotto il calendario gregoriano (lo stesso in uso nell'Occidente cristiano), per quanto riguarda il ciclo delle festività a data fissa. Con poche eccezioni dovute alla presenza ortodossa in paesi occidentali, tutte le Chiese ortodosse celebrano invece il ciclo della Pasqua, e delle feste mobili a questa connesse, secondo l'antico calendario.
Le ragioni dell'aderenza al vecchio calendario - che hanno procurato in questi ultimi decenni non poche amarezze tra gli stessi ortodossi - sono molteplici:
1) in primo luogo, il calendario giuliano ecclesiastico, e i cicli pasquali dei Padri della Chiesa di Alessandria, costituiscono un prodigio di ritmo e di armonia tra scienza e fede, a cui il calendario gregoriano (frutto di un'epoca di ossessione "scientista" per l'esattezza della data astronomica dell'equinozio di primavera) non riesce neppure ad avvicinarsi.
2) Inoltre, le "imprecisioni" astronomiche che la riforma gregoriana si vanta di avere eliminato sono state meramente attenuate, e i dati del calendario gregoriano, per i difetti dovuti a qualsiasi calendario, vanno anch'essi discostandosi sempre più dai dati reali.
3) Infine, l'adozione del calendario gregoriano causa innumerevoli violazioni alle norme della Chiesa, prima fra tutte quella che, rifacendosi a un decreto del Concilio di Nicea (325) proibisce la celebrazione della Pasqua nello stesso giorno della Pasqua ebraica.
Con l'adozione del calendario gregoriano nel 1582, la Chiesa cattolica romana ruppe per la prima volta l'unità della Pasqua e delle feste cristiane. Oggi è quanto meno singolare vedere la maggioranza degli ortodossi accusati di "arretratezza" o di mancanza di spirito fraterno, per avere voluto mantenere, nella vita della Chiesa, l'integrità del deposito di fede dei Padri.
Pasqua ed altre festività
Per l'Ortodossia, la Pasqua è la "festa delle feste," tanto da non essere neppure annoverata tra le "dodici grandi feste" del ciclo cristologico, e da occupare un posto a parte, di assoluta centralità. L'enfasi occidentale sull'Incarnazione e sul dramma della Passione si fa sentire ancora nel Catechismo di Papa Pio X, dove la lista dei principali misteri della religione cristiana include l'Incarnazione, la Passione e la Morte del Signore, senza menzionare esplicitamente la Risurrezione.
Festività alterate
La Chiesa cattolica romana ha spostato, o "sdoppiato", alcune delle grandi festività dell'anno liturgico. Per esempio, il Battesimo del Signore, anticamente celebrato il 6 Gennaio, festa della Teofania o Epifania (vale a dire, manifestazione divina) viene oggi celebrato la domenica successiva. La Domenica della Trinità, divenuta festa a parte, un tempo formava un'unica festività con la Domenica di Pentecoste, e così via.
Nel rimanere fedele alle antiche festività, l'Ortodossia vuole anche insistere sul loro significato teologico, e teme che il loro senso venga indebolito o perduto con ripetizioni e spostamenti. Offriamo qui di seguito alcuni esempi esplicativi:
- L'adorazione dei Magi è collegata alla Natività del Signore, sia nella narrazione evangelica che nella comprensione della Chiesa ortodossa (come si può notare nella celebrazione del Natale ortodosso). Lo spostamento di questo evento alla festa dell'Epifania non solo crea una separazione artificiosa nel contesto della Natività, ma indebolisce l'idea stessa della manifestazione divina, derubandola dell'immagine della manifestazione della Trinità al battesimo nel Giordano.
- L'adozione da parte di tutta la cristianità occidentale dei giorni 1 e 2 Novembre per celebrare tutti i Santi, e la memoria dei defunti, proviene dall'antica chiesa irlandese. Questa pratica era mirata a cristianizzare la festa druidica di Samhain, il giorno celebrato con sacrifici pagani, in cui si credeva che le anime dei defunti tornassero sulla terra. A parte ogni considerazione sulla riuscita di tale iniziativa (il successo contemporaneo di Halloween nei paesi di lingua inglese può far nascere qualche dubbio in proposito), l'adozione indifferenziata di questo costume veramente locale per tutti i paesi cattolici di tradizione non celtica sembra una vera forzatura. Per di più, veniva soppiantata la pratica antica (tuttora osservata dagli ortodossi) di festeggiare tutti i Santi la domenica successiva alla Pentecoste (cosa che rafforza il legame logico tra la comunione dei Santi e lo Spirito "fonte di ogni santità"), nonché l'antico costume di dedicare al ricordo dei defunti tutti i giorni di Sabato, con l'introduzione di una "stagione dei morti" un po' artificiosa.
- Gli eventi biblici che hanno sempre espresso la regalità di Cristo sono l'Ingresso a Gerusalemme, l'Ascensione e, in modo paradossale, l'iter della Passione. L'aggiunta di una nuova festa di Cristo Re, per quanto bene intenzionata, separa l'idea astratta della regalità di Cristo, quasi come una lode "politica" alla monarchia in sé, collocando la regalità in un contesto isolato dalla storia della salvezza.
Canonizzazioni
La Chiesa ortodossa non ha più inserito nei suoi calendari i santi canonizzati dalla Chiesa cattolica romana dopo il grande scisma del 1054, mentre mantiene i santi anteriori a questa data. Anche con l'accettazione in seno alla Chiesa ortodossa di cristiani occidentali, non è stata loro permessa la venerazione pubblica di santi "latini" posteriori allo scisma. La Chiesa cattolica romana, al contrario, ha permesso la venerazione di santi "greci" canonizzati dagli ortodossi dopo lo scisma, tipicamente nei casi delle Chiese cattoliche orientali.
Dietro la severità della procedura ortodossa c'è un'istanza di profonda serietà: il rifiuto di "rubare" santi a chiese che non sono in comunione con la Chiesa ortodossa (anche figure che maggiormente potrebbero essere vicine alla spiritualità ortodossa) è motivato dal desiderio ortodosso di cercare in primo luogo una piena comunione nella fede, e solo a quel momento sancire una celebrazione comune.
Decanonizzazioni
La Chiesa ortodossa, non avendo una procedura "centralizzata" e inappellabile per la canonizzazione dei santi, ammette in linea di principio che il giudizio di canonizzazione non sia infallibile. Può capitare pertanto che la Chiesa tolga dall'albo dei santi certi nomi, e che eventualmente ve li rimetta, senza che questo crei scandalo tra i fedeli. (È una prassi di fatto accaduta all'imperatore Costantino, sospettato di arianesimo, e alla principessa russa Anna di Kashin, sospettata di aver appartenuto allo scisma dei Vecchi Credenti, entrambi tolti dall'albo dei santi e in seguito ricanonizzati).
La Chiesa cattolica romana, al contrario, sostiene che la canonizzazione sia un atto irreformabile, in quanto giudizio solenne che impegna la Chiesa. Gli ortodossi non sanno se essere più sconcertati per questo rigorismo inappellabile, o per certe flagranti contraddizioni in cui lo stesso Cattolicesimo romano è caduto, ammettendo di fatto numerose decanonizzazioni.
Tra i santi decanonizzati dalla Chiesa romana per ragioni di ortodossia teologica, citiamo due casi: San Clemente Alessandrino, festeggiato il 4 Dicembre, fu radiato nel 1586 dal Martirologio Romano da Papa Sisto V, su istanza del Cardinale Baronio, per sospetti di origenismo; Papa Urbano V (1362-1370) fa ancora riferimento in una delle sue bolle a San Giovanni Cassiano, in seguito radiato dall'albo dei santi sotto accusa di semipelagianesimo.
Una decanonizzazione che è parsa particolarmente offensiva agli ortodossi (per i quali equivale a uno sfregio alla tradizione), è la recente esclusione dall'albo cattolico romano dei santi di figure sulla cui storicità sono stati espressi dubbi (a cominciare da San Giorgio e Santa Barbara, due delle figure più venerate del cristianesimo).
Il segno di croce
Il conte Lotario di Segni (papa Innocenzo III), nella sua opera Il Sacramento dell’altare (II, 45), si preoccupa di ricordare il modo esatto - ortodosso -di fare il segno di croce: è probabile, quindi, che proprio al suo tempo (circa 1209\16), i cattolici avessero iniziato a fare il segno di croce al contrario, e con la mano aperta. La nuova moda diventa poi obbligatoria per ordine di Camillo Borghese (papa Pio V, 1605\21).
Uno dei primi comportamenti che differenziano l'espressione devozionale di ortodossi e cattolici è il modo di farsi il segno della croce. Il cattolico di rito latino si segna tenendo la palma della mano aperta, e toccando la fronte, il petto (solitamente all'altezza del cuore), e le spalle, prima la sinistra e poi la destra. L'ortodosso si segna unendo pollice, indice e medio e ripiegando l'anulare e l'indice sul palmo, e toccando la fronte, il ventre (all'altezza dell'ombelico, o della cintola), e le spalle, prima la destra e poi la sinistra. Nell'antico rito russo, il pollice viene unito alle dita ripiegate anziché alle dita estese.
Il modo ortodosso di segnarsi è carico di un ricco simbolismo. Questo viene spiegato talora in modi differenti, ma genericamente si attribuisce all'unione delle tre dita il senso di una professione di fede trinitaria (tre persone in un unico Dio), e alle altre due dita un significato cristologico (due nature nella persona di Cristo). L'estensione del segno della croce al ventre è immagine di centralità e ricorda la nascita verginale di Gesù Cristo. Il segnarsi dalla spalla destra alla sinistra richiama la seconda venuta di Cristo dalla destra del Padre, o il predominio della luce (tradizionalmente associata al lato destro) sulle tenebre.
Il segno della croce "latino", più semplificato, venne considerato fin dal suo apparire una modifica del costume apostolico. Ancora per un certo tempo dopo lo scisma, la stessa sede romana continuò a deprecare la pratica di segnarsi a mano aperta, e da sinistra a destra.
Chi ha modo di osservare i fedeli cattolici e ortodossi durante le funzioni di culto, noterà che questi ultimi impiegano il segno della croce con molta più frequenza e spontaneità dei primi, talvolta segnandosi più volte di fila, o accompagnando il segno della croce con inchini e prosternazioni. Pur esistendo complesse tradizioni monastiche sull'uso appropriato del segno della croce in varie circostanze, di fatto, esiste nel culto ortodosso una libertà molto più ampia nell'uso del segno della croce, e può capitare che fedeli diversi si segnino in momenti diversi.
Devozione al Sacro Cuore
In profonda armonia con lo spirito del Concilio di Calcedonia (culto unico di Cristo nella sua divinità e umanità), l'Ortodossia ha sempre mantenuto un senso globale nell'adorazione di Cristo, e anche oggi gli ortodossi si sentono estranei alle forme di culto di qualche parte distinta del suo essere, o di una delle sue nature separata dall'altra.
L'esempio più clamoroso di tali forme di culto è la devozione cattolico-romana al Sacro Cuore di Gesù (una pratica sviluppatasi alla fine del XVII secolo dalle rivelazioni della mistica francese Margherita Maria Alacoque).
Anche se per "cuore" intendiamo l'ardente amore del Salvatore per gli uomini, pure non esiste, nell'Antico e nel Nuovo Testamento e nella tradizione dei Padri, l'usanza di adorare separatamente l'amore di Dio (o la sua sapienza, provvidenza, santità, o altri aspetti separati), tanto meno usandone come simbolo una parte del corpo.
L'Ortodossia vede qualcosa di innaturale nella separazione del cuore dalla natura corporea generale del Signore a scopo di preghiera e contrizione di fronte a Lui. Anche nell'amore più spontaneo e immediato, come quello materno, non ci si riferisce mai al cuore della persona amata, ma sempre alla persona stessa, in modo globale.
Gli stessi commenti possono valere riguardo a forme simili di devozione (per esempio, quella al Cuore Immacolato di Maria), profondamente sentite nel mondo cattolico romano.
Devozioni medioevali
Le usanze e le pratiche devozionali del mondo ortodosso attuale hanno mantenuto una notevole continuità con quelle del primo millennio. Non così si può dire del mondo della pietà cattolica romana, che subì una vera e propria rivoluzione intorno al dodicesimo secolo. Con lo spostamento dell'attenzione dalla nostra redenzione per mezzo della Risurrezione del Signore a un'enfasi sulla Passione del Signore, fu introdotto nel culto e nella devozione privata un elemento simbolico di amore carnale. Si giunse a considerare il Signore come compagno, amico o perfino marito/amante, come si vede nelle immagini matrimoniali introdotte nella professione monastica (q.v.) delle donne in Occidente. Tra le manifestazioni di questo nuovo approccio a Cristo vi sono la festa del Santo Nome, devozioni speciali alle Cinque Piaghe di Cristo, le stazioni della Via Crucis, le meditazioni assegnate alle decadi del rosario, il presepio di Natale e la devozione al "Bambino Gesù" in generale, nonché la devozione al Sacro Cuore di Gesù (q.v.). L'Ortodossia ha mantenuto un approccio devozionale al Signore molto più sobrio e obiettivo, cercando di evitare la sensualità, la sentimentalità e l'emotività.
Le chiese
Tutte le chiese antiche sono orientate, costruite in modo che si possa pregare guardando ad Oriente: Cristo è il sole che sorge sulle tenebre del mondo. Anche quando - in Occidente - si perse quest’abitudine, almeno gli altari erano disposti in modo più o meno corretto: solo attorno al 1970 i cattolici hanno ‘ribaltato’ gli altari (spesso demolendo quelli d’un tempo) e distrutto le balaustre (ultima traccia della iconostasi, la struttura che nelle chiese ortodosse separa la navata dall’altare).
Banchi e sedie
Uno dei particolari che si notano più facilmente entrando nelle chiese ortodosse è la relativa assenza di posti a sedere. Solo le chiese adattate da precedenti luoghi di culto cattolici e protestanti hanno abbondanza di banchi e sedie; nelle altre si trovano abitualmente dei sedili lungo le pareti, riservati alle persone anziane o inferme. Nella tradizione ortodossa, i fedeli stanno in piedi praticamente per tutta la durata delle funzioni (un'abilità che si raggiunge con la pratica), e sono poche le preghiere o i momenti di culto per le quali è prescritto ai fedeli di sedersi o inginocchiarsi. In realtà, capita spesso di trovare un'avversione tipicamente ortodossa per i sedili posti in mezzo alla navata (soprattutto i banchi con inginocchiatoi), che vengono visti come un impedimento al culto (che rende impossibili, per esempio, le prosternazioni e altre espressioni individuali di pietà), un irrigidimento del ruolo del fedele, e una limitazione alla sua connessione e relazione con l'ambiente e il concetto spaziale di "Cielo sulla terra".
Le statue
Dopo essersi separati dalla Chiesa ortodossa, i cattolici cominciano a decorare l’esterno degli edifici di culto con bassorilievi e statue (vedi le chiese gotiche). Il gusto teatrale dell’arte rinascimentale e barocca, impone poi la moda delle statue anche all’interno di chiese e case. La moda è favorita, nel XVI secolo, dalle prime scoperte archeologiche: Michelangelo, per raffigurare Cristo Giudice sull’altare della Cappella Sistina, copia una statua classica del dio Apollo (l’Apollo del Belvedere). La diffusione delle statue tra i cattolici è favorita anche dall’abbandono dell’arte sacra che diventa “arte religiosa” (Giotto) e poi “arte a soggetto religioso” per annullarsi, infine, in arte astratta dalla realtà.
Uno studio, per quanto sommario, dell'arte sacra della chiesa ortodossa, rivela subito l'assenza di statue tra le immagini a uso liturgico. Nelle chiese ortodosse si trova di norma una grande abbondanza di immagini pittoriche (icone su tavole, affreschi, mosaici, intarsi, ricami), ma non vi sono statue o immagini scolpite a tutto tondo (anche se non mancano i bassorilievi, spesso eseguiti in legno). Questo uso appare in perfetta coerenza con l'arte sacra del primo millennio cristiano, nel quale l'assenza di sculture fu universale. Numerosi motivi spinsero i primi iconografi cristiani a evitare l'uso delle statue: senza dubbio il timore di una identificazione con il culto pagano (innumerevoli esempi attestano la venerazione di divinità pagane attraverso le statue, mentre le immagini pittoriche non erano usate a questo scopo), ma ancor più il rifiuto di modellare l'arte sacra su criteri di realismo naturalistico.
In questo ambito ebbe anche un certo peso la fedeltà al testo dei dieci comandamenti così come fu tramandato dai Padri della Chiesa, e come è ancora in uso nella Chiesa ortodossa ("non ti costruirai idoli, né alcuna scultura di ciò che è in alto nel cielo, o che è sulla terra...").
Il medioevo latino ha ripreso l'uso delle statue per scopi di arte religiosa, riuscendo forse ad attirare la devozione popolare su oggetti più "tangibili", ma mondanizzando allo stesso tempo le immagini sacre e la loro venerazione.
Le statue, a differenza delle icone, non possono essere viste come un libro di teologia per chi non sa leggere (curiosamente, il mondo ortodosso usa frequentemente il verbo "scrivere" per indicare la creazione delle icone), ed è ben difficile vedere una statua come una "finestra" su qualsivoglia realtà.
Una statua attrae (o piuttosto distrae) l'attenzione su dimensioni fisiche, immaginative e romantiche: l'insegnamento ortodosso ritiene che l'unica icona tridimensionale appropriata sia l'essere umano vivente. L'Ortodossia non sostiene che le statue siano un male, ma solo che non siano appropriate come oggetti di venerazione, così come la musica ecclesiastica (q.v.) non si possa esprimere in modo appropriato con strumenti musicali.
L'Ortodossia non è peraltro contraria alle statue in un contesto non liturgico: la tradizione ortodossa ricorda una statua di Cristo eretta da una delle persone da lui guarite (l'emorroissa) nella città di Panas. Questa immagine, usata dagli ortodossi per sostenere l'accuratezza delle immagini di Cristo nelle discussioni con gli iconoclasti, ha tuttavia un mero valore di testimonianza storica.
Un altro paragone interessante si può fare a proposito della concezione di grazia: l'icona riflette l'insegnamento ortodosso della grazia increata e del suo impatto su tutta la creazione. La statua (che normalmente non è oggetto di venerazione, ma supporto di meditazione), riflette la teoria latina della grazia creata.
Venerazione delle icone
Mentre non è inconsueto vedere cattolici romani pregare per lungo tempo di fronte a immagini sacre, si può facilmente notare come i fedeli ortodossi assumano un atteggiamento di maggiore dialogo e interazione con le icone: nella tradizione ortodossa è d'uso, entrando in una chiesa o in una casa, segnarsi di fronte alle icone, baciandole e accendendo di fronte a loro candele e lampade.
In stretta conformità con i decreti del settimo Concilio Ecumenico (Nicea, 787), il cui Sinodico fa parte integrante del culto ortodosso, la venerazione delle immagini sacre è parte integrante della vita di fede, pubblica e privata, dei cristiani ortodossi, che nella loro iconografia hanno un segno di straordinaria continuità con la fede apostolica.
Questo forte senso di compenetrazione con le immagini sacre è andato sempre più affievolendosi in Occidente, con una progressiva decadenza verso un'arte naturalistica indulgente al razionalismo e al sentimentalismo, e all'uso dell'immagine come "supporto meditativo".
Gli ortodossi, di fronte agli innumerevoli "sviluppi" dell'arte religiosa cattolico-romana, che in gran parte hanno contribuito a neutralizzare la sinfonia tra arte sacra e devozione cristiana, non possono fare altro che vedervi i segni di un autentico allontanamento dalla verità e dalla pienezza di fede.
Vetrate istoriate
Per quanto si possa dire che gli ortodossi non badino a spese per decorare con ricchezza e solennità l'interno delle loro chiese, non si è sviluppata tra loro l'arte delle vetrate colorate che ha reso famose le grandi cattedrali gotiche del medioevo (e che da queste è passata anche al protestantesimo). Ciò ha avuto ragioni storiche: la tipica architettura bizantina e slava non ha mai permesso un grande spazio per le finestre, e sovraccaricare di colori le poche aperture esistenti avrebbe sottratto illuminazione all'interno. Tuttavia, anche con le più ampie aperture permesse dalle moderne tecnologie, si è preferito comunque mantenere un colore uniforme e soffuso per le vetrate, senza decorazioni particolari (un tipico caso è la cattedrale di San Demetrio a Salonicco, in Grecia). Certamente, non si può parlare di avversione all'iconografia (dopo tutto, le icone sono definite "finestre" sul cielo), ma bisogna piuttosto considerare questa apparente carenza in relazione con le altre immagini all'interno delle chiese. Nelle cattedrali gotiche, le vetrate colorate arricchivano quello che sarebbe altrimenti stato un ambiente spartano; in una chiesa ortodossa, esse creerebbero probabilmente contrasto e confusione con l'iconografia parietale (affreschi e mosaici), limitandone l'illuminazione e proiettandovi sopra fasci di luce eterogenea e innaturale. Inoltre, diventerebbero un falso surrogato delle icone interne. La finestra ideale di una chiesa ortodossa deve donare un senso di luce celeste e traslucida (per questo erano sapientemente usati nell'antichità l'onice e l'alabastro), che esalta il valore dell'iconografia interna.
"In Persona Christi"
Mentre l'Ortodossia insegna che la grazia dei sacramenti si infonde negli elementi materiali (pane, vino, acqua, olio) attraverso l'epiclesi (q.v.) o invocazione dello Spirito Santo, il Cattolicesimo romano ha un'enfasi molto più accentuata sul celebrante, che agisce "nella persona di Cristo" donando grazia ai sacramenti nel suo nome. Questo spiega anche perché le formule dell'amministrazione dei sacramenti si sono modificate, nella prassi cattolica romana, da deprecative ("il Servo di Dio N. è battezzato...") in indicative ("N., io ti battezzo...").
Il problema della concezione cattolica romana sorge quando si inizia a confondere il ruolo del prete come rappresentante della persona di Cristo con l'altro ruolo (attestato da una prassi ben più antica) di rappresentante del vescovo, che a sua volta dovrebbe essere "icona di Cristo" nella sua diocesi.
Libri liturgici
I libri di culto della tradizione cattolica romana sono più volte stati riformati, subendo numerose semplificazioni e riduzioni (soprattutto dopo il Concilio Vaticano II): per seguire le ufficiature pubbliche della Chiesa romana, possono essere sufficienti il Messale e il Breviario.
La Chiesa ortodossa mantiene una maggiore quantità di testi (circa 5000 pagine a stampa) necessari per le ufficiature, e comprendenti una piccola biblioteca di una ventina di volumi.
Tali libri, a prima vista di difficile padronanza, costituiscono uno dei tesori più preziosi della Chiesa ortodossa, e una loro revisione in senso riduttivo sarebbe vista come un atto di autolesionismo.
Lingua vernacolare
La Chiesa ortodossa ha sempre rispettato il diritto dei fedeli a partecipare a funzioni di culto tenute in una lingua a loro comprensibile.
Se avviene che in certe chiese venga usata una lingua più arcaica al posto di quella di uso corrente (nel mondo greco si usa la forma antica della lingua greca; nelle chiese slave la lingua liturgica è il paleoslavo, o antico slavo ecclesiastico, invece delle lingue correnti come il russo, e così via), è pur vero che queste lingue arcaiche sono tuttora comprensibili a livello popolare.
L'adozione universale della lingua parlata nella Chiesa cattolica romana risale al periodo seguente al Concilio Vaticano II, e talora l'imposizione forzata di una fraseologia "moderna" ha creato non poche delusioni. Forte di una tradizione millenaria di liturgia vernacolare, che riesce a essere genuinamente popolare senza scadere nella banalità, l'Ortodossia avrebbe forse qualche esempio da offrire in materia.
Nella versione vernacolare del Novus Ordo Missae cattolico romano, in numerose lingue moderne (tra cui l'italiano), il termine "multis" delle parole di istituzione eucaristica ("questo è il mio Sangue, che per voi e per molti si versa in remissione dei peccati"), è stato tradotto con "tutti": questo punto marca una considerevole deviazione non solo dalla pratica ortodossa, ma anche dalla teologia cattolica romana del periodo tridentino.
Il Catechismo del Concilio di Trento, in accordo su questo punto con la teologia ortodossa antica e moderna, condanna l'uso del termine "tutti" per indicare coloro per cui il Sangue di Cristo viene sparso. Il Catechismo fa un esplicito paragone tra il sacrificio di Cristo e la sua preghiera al Padre, in cui Egli prega per coloro che il Padre gli ha dato, e non per il mondo: il sangue viene sparso per coloro che accettano Cristo, e non per tutti indistintamente, poiché se tutti possono volgersi a Cristo, non tutti lo hanno fatto.
Questo cambiamento terminologico è di particolare gravità, non solo perché sono state mutate le parole stesse di Cristo, ma perché, per la teologia cattolica romana, queste parole sono la chiave della consacrazione eucaristica.
Senso del mistero
L'Ortodossia e il Cattolicesimo romano hanno attitudini piuttosto differenti riguardo ai gesti sacri. Nella celebrazione dei misteri ("mistero" è la parola di origine greca con la quale si designano abitualmente i sacramenti), questa diversità è abbastanza evidente nel momento solenne della consacrazione eucaristica.
Mentre il mondo latino, sempre attento alla definizione e all'esposizione dell'ineffabile, accompagna la consacrazione delle Sacre specie con gesti di ostentazione (elevazione dell'ostia, suono di campane), la tradizione ortodossa preferisce l'adorazione silenziosa, quasi rifuggendo come una tentazione il bisogno di definire il mistero in termini umani.
La bramosia di etichettare il mistero, che lo espone a ogni sorta di razionalizzazione umana, risulta particolarmente sgradita alla coscienza ortodossa.
Liturgia
Il termine "liturgia", che in Occidente è in uso per indicare tutto l'insieme dei riti e delle celebrazioni ufficiali della Chiesa, in Oriente indica principalmente la celebrazione dell'Eucaristia (ed è con questo significato che, ai tempi del Rinascimento, il termine fu "trapiantato" dalla Grecia nel lessico religioso della Chiesa di Roma). Ancor oggi, con Liturgia, o Divina Liturgia, un ortodosso intende quella che nel mondo latino viene chiamata Messa, o Santa Messa.
Liturgia "ortodossa" o "bizantina"?
Spesso si fa riferimento all'antica Liturgia bizantina chiamandola "Liturgia ortodossa", sorvolando sul fatto che anche le antiche Liturgie occidentali (romana, ambrosiana, gallicana, e così via), nate nel contesto di piena fede ortodossa della Chiesa del primo millennio, hanno il medesimo diritto a questo appellativo.
Nella coscienza ortodossa, "Ortodossia" non è sinonimo di "rito orientale" (l'identificazione operata in tal senso in ambiente cattolico romano viene vista come un abuso), ma di pienezza di fede. Un rito differente, purché sia capace di esprimere la stessa pienezza, sarebbe altrettanto legittimo e "ortodosso" di quello bizantino.
Di fatto, certi gruppi di ortodossi in Occidente hanno adottato o riadattato antichi riti occidentali a proprio uso, con zelo e dedizione per la riscoperta delle radici ortodosse della cristianità latina.
Unicità della Liturgia
In conformità alla prassi di tutta la cristianità del primo millennio, le chiese ortodosse hanno un singolo altare eucaristico, e vi si celebra la Divina Liturgia non più di una volta al giorno, sempre alla presenza di altri fedeli oltre al sacerdote (è esclusa a priori qualsiasi celebrazione strettamente solitaria). Questo costume è coerente con la concezione che i primi cristiani avevano della Chiesa: i laici e il clero radunati attorno al proprio vescovo, e formanti un unico corpo nel mistero eucaristico. Questa unicità della Chiesa si combina perfettamente con l'unicità della Liturgia.
In Occidente, nel movimento monastico cluniacense (XI secolo), si iniziò a separare atto liturgico e comunità dei credenti, nella convinzione che il sacrificio eucaristico potesse essere di maggiore aiuto se celebrato con più frequenza, a suffragio di quante più persone possibile (particolarmente i defunti). Iniziarono così i fenomeni degli altari secondari, eretti in navate e cappelle laterali delle chiese, perché un maggiore numero di sacerdoti potesse celebrare l'eucaristia. Ebbero altresì inizio le cosiddette "Messe private", celebrate dal sacerdote senza concorso di fedeli, a volte come esercizio devozionale, talora come "Messe di suffragio".
La tradizione ortodossa ritiene che questa concezione "quantitativa" dell'eucaristia ne abbia svilito e snaturato lo spirito; nonostante l'Ortodossia apprezzi i tentativi di ritornare all'antica tradizione compiuti dal movimento liturgico cattolico di questo secolo, essa continua a vedere nei recenti insegnamenti cattolico-romani in materia la medesima impostazione.
Bacio rituale
L'espressione corporea del bacio, oggi limitata nel rito latino a rari gesti dei celebranti, è un'esternazione di pietà tipica del culto ortodosso, che indica venerazione, rispetto e senso di comunione. Entrando in chiesa, i fedeli baciano le icone, e durante le funzioni è pratica comune baciare la mano dei celebranti (a significare la mano di Cristo da cui si riceve ogni grazia sacramentale), o altri oggetti, quali i paramenti, la croce e il libro dei Vangeli (ragioni esclusivamente pratiche sconsigliano di baciare il turibolo acceso...); il saluto di pace tra i celebranti avviene tipicamente nella forma del bacio, così come la venerazione delle reliquie.
Saluto di pace
Nella nuova messa postconciliare, i fedeli cattolici romani vengono abitualmente invitati dal celebrante a scambiarsi un segno di pace. Nel rito eucaristico (Liturgie di San Giovanni Crisostomo e di San Basilio) comunemente usato dagli ortodossi, così come nell'antica messa tridentina, il saluto di pace viene scambiato solo tra coloro che servono all'altare. Inoltre, il saluto di pace nel rito eucaristico ortodosso è situato subito prima della recitazione del Credo (preceduto dall'annuncio "amiamoci gli uni gli altri, affinché in unità di spirito possiamo professare la nostra fede"). Nel rito latino, antico e moderno, il saluto si trova invece dopo il Padre Nostro e prima della comunione.
L'Ortodossia mantiene di preferenza il costume del saluto di pace riservato ai celebranti, perché questo gesto è un segno di piena comunione, e in senso stretto non andrebbe scambiato con i non ortodossi. Per gli ortodossi l'odierno uso cattolico romano, generalizzato a tutti i partecipanti alla messa, ha finito per indebolire il senso di un segno di comunione tra i fedeli.
Funzioni cantate
Nella Chiesa ortodossa, tutte le funzioni sacre vengono cantate o intonate. Non esiste (come non è esistito nell'antichità cristiana) l'equivalente eucaristico della "Messa Bassa" del Cattolicesimo romano: tutta la Divina Liturgia, nelle sue parti "comuni" (vi sono anche preghiere sacerdotali recitate a bassa voce, ma non pubblicamente), viene cantata, anche nel caso che non vi fossero che il sacerdote e un singolo lettore o cantore. Questa insistenza si appoggia in parte al valore assegnato al canto dai Santi Padri, e ha permesso una continuità ininterrotta di tradizione musicale sacra.
D'altra parte, la presenza della "Messa bassa" si giustifica con l'introduzione medioevale delle celebrazioni multiple e simultanee nella stessa chiesa, cosa che gli ortodossi ritengono una seria deviazione dal principio dell'unicità della Liturgia (q.v.).
Nelle chiese ortodosse, con l'eccezione di alcune chiese greche (per esempio, nelle Isole Ionie) che hanno a lungo subito un influsso latino, è virtualmente impossibile trovare strumenti musicali a uso liturgico. Per quanto le Sacre Scritture siano ricche di immagini di lode a Dio attraverso strumenti musicali, infatti, i Padri della Chiesa esortarono all'uso della sola voce umana negli inni, sull'esempio di nostro Signore e dei suoi discepoli. Le Costituzioni Apostoliche del IV secolo vietano l'uso di strumenti musicali nella chiesa, e la prassi ortodossa è rimasta invariata da allora.
In Occidente, invece, l'uso degli strumenti risale al periodo carolingio, quando furono insediati nelle chiese i primi organi. Per colmo dell'ironia, furono proprio gli imperatori greci di Bisanzio (che usavano gli organi a corte e all'ippodromo) a fare dono di questi strumenti ai re carolingi (Costantino I Copronimo ne donò uno a Pipino il Breve, e Michele III Rangabe ne offrì uno a Carlo Magno).
Ancora oggi, gli ortodossi vedono nell'uso liturgico di strumenti musicali una disubbidienza alle regole e allo spirito dei Padri, e un pericoloso principio di commistione tra musica sacra e musica profana.
Funzioni "speciali"
La "diversificazione dei carismi", che ha portato nel cattolicesimo romano alla nascita di così tanti ordini religiosi (q.v), ha creato anche una forma di sviluppo di funzioni di culto dedicate a singole categorie sociali, a singoli eventi, o a particolari richieste. Tale sviluppo di forme particolari è andato ben oltre alla composizione di singole preghiere, "contagiando" persino l'atto centrale del culto cristiano, la Santa Eucaristia (si può pensare, come esempio evidente, alle recenti "Messe per i giovani"). Questa non è un'innovazione contemporanea: già le complesse regole che diversificano le Messe per i defunti dalle altre celebrazioni eucaristiche permettono di tracciare tali tendenze alla specializzazione fin nell'Alto Medioevo. La coscienza ortodossa, forse in questo più "popolare", non si è mai spinta oltre all'inclusione di alcune intenzioni di preghiera all'interno della Divina Liturgia. In tal modo non si è perduta la centralità dell'Eucaristia, che continua a parlare a ogni fedele e per ogni circostanza.
Precetto festivo
Anche se alcune Chiese ortodosse locali, nella loro disciplina canonica, includono una regola di partecipazione alla Liturgia domenicale che è molto simile al "precetto festivo" del cattolicesimo romano (e in alcuni casi ne sembra evidentemente influenzata), gli ortodossi si sentono piuttosto a disagio con la "obbligazione" cattolica romana al culto domenicale (come se la partecipazione alla Liturgia fosse un atto di dovuta cortesia, piuttosto che la partecipazione al dono della salvezza).
Forse il concetto della Liturgia come scuola potrebbe aiutare a chiarire questa scarsità di precetti: essendoci così tante funzioni ricche di contenuto teologico, coloro che cercano di approfondire la propria conoscenza spirituale si sforzano di essere presenti a quante più funzioni possibili, e anche la durata (q.v.) delle funzioni assume un carattere pedagogico.
Preparazione alla Santa Comunione
Il profondo senso di venerazione degli ortodossi per l'eucaristia fa sì che i fedeli dedichino una particolare attenzione alla preparazione alla comunione, partecipando alla funzione di Veglia (o quanto meno al Vespro) alla sera prima, o supplendo alla preghiera pubblica con adeguate preghiere preparatorie. La stessa prassi vuole che chi desidera comunicarsi si astenga alla sera prima da attività dispersive (come la danza) o, nel caso di sposi, da rapporti coniugali (questo non per disprezzo verso la sessualità, ma per un senso di priorità del nutrimento dello spirito).
Nel mondo cattolico romano, la totale scomparsa di questi precetti, oltre all'estrema semplificazione delle norme sul digiuno (q.v.), espone facilmente alla banalizzazione dell'atto centrale e più sacro della vita del cristiano.
Epiclesi eucaristica
Nel rito eucaristico della Chiesa ortodossa, un momento fondamentale è costituito dall'epiclesi, ovvero dall'invocazione dello Spirito Santo sui Santi doni, perché li trasformi nel Corpo e nel Sangue di Cristo. Questo momento dell'epiclesi è presente anche in molti altri momenti del culto ortodosso, tipicamente quando la Chiesa vuole sottolineare che certi effetti misteriosi non avvengono per volontà umana, ma per intervento di Dio.
Anche se la epiclesi non viene considerata l'unico fattore che determina la consacrazione eucaristica, nondimeno la teologia ortodossa riterrebbe priva di validità un'Eucaristia celebrata senza l'invocazione, almeno implicita, dello Spirito.
Inoltre, per la Chiesa ortodossa è la preghiera dell'epiclesi (recitata dopo le parole di istituzione) a perfezionare la trasformazione eucaristica: La Liturgia di San Giovanni Crisostomo, a questo proposito, è inequivocabile: "...e fa' di questo PANE il prezioso Corpo del tuo Cristo".
Per la teologia cattolico-romana, il momento della consacrazione è costituito dalle parole di istituzione ("questo è il mio corpo" e "questo è il mio sangue"), e la formula di epiclesi viene di solito considerata secondaria.
Prima del Concilio Vaticano II, il Canone eucaristico romano non conteneva una epiclesi esplicita; molti liturgisti ortodossi, tra cui il celebre Nicola Cabasilas, indicarono tuttavia nel paragrafo Supplices Te rogamus... una forma implicita di invocazione dello Spirito.
È significativo, inoltre, che negli antichi canoni eucaristici, l'epiclesi fosse sempre posta dopo le parole di istituzione, per indicare il culmine del processo di consacrazione. Così è tuttora nella liturgia bizantina, e così era nel rito latino per quanto riguarda il Supplices Te rogamus. Un fatto curioso del rito eucaristico romano post-conciliare è che l'antica Anafora di Ippolito (divenuta la Preghiera Eucaristica II) abbia subito una traslazione dell'epiclesi da dopo le parole di istituzione a prima, in una posizione più "neutrale".
L'insistenza cattolico-romana sulle parole di istituzione non sembra peraltro giustificata in tutto l'ecumene cristiano: una delle antiche liturgie siriache, l'Anafora di Addai e Mari (tuttora in uso presso le chiese sire), è addirittura priva delle parole di istituzione.
L'Adorazione eucaristica
Nel culto ortodosso, non vi sono funzioni di adorazione pubblica del Santissimo Sacramento, né esiste l'equivalente della esposizione e della benedizione eucaristica cattolica romana. Nel corso della Divina Liturgia, dopo la comunione dei fedeli, è ora invalso l'uso (mai codificato in alcuna rubrica scritta) che il prete benedica il popolo con il Santissimo Sacramento, ma questo gesto (che è di fatto l'equivalente della benedizione eucaristica romana, e la cui introduzione tardiva può far pensare a un "latinismo") non viene mai compiuto al di fuori del momento della comunione.
Non esistono divieti espliciti a usare i Santi Doni per benedire i fedeli, ma l'Ortodossia non avverte questo genere di bisogno, sia per il proprio tradizionale senso di riservatezza e di avversione per le forme di ostentazione del mistero, sia per un'adesione più intensa alla finalità del Corpo e del Sangue di Cristo come nutrimento ("prendete e mangiate").
Una ragione complementare della riluttanza degli ortodossi ad accettare queste forme rituali si potrebbe vedere nella separazione delle specie eucaristiche, poiché nella prassi cattolica romana solo il Corpo viene utilizzato per l'adorazione e la benedizione.
Comunione chiusa
Anche se un cristiano non ortodosso interamente tagliato fuori dai ministri della propria Chiesa può, in casi particolari (persecuzioni, pericolo di morte, isolamento geografico...) essere ammesso con permesso speciale a ricevere la Santa Comunione nella Chiesa ortodossa, non si applica in alcun modo il contrario: agli ortodossi è proibito essere ammessi alla comunione eucaristica per mano di sacerdoti non ortodossi. Nella sua apparente durezza (per la quale gli ortodossi vengono facilmente criticati), questa norma è profondamente in linea con la fede della Chiesa. Comunicare al Corpo e al Sangue di Cristo significa anche confessare che nella Chiesa in cui ci si comunica esiste la pienezza della fede apostolica. Significa inoltre, di fatto, diventare membri di detta Chiesa a pieno titolo, abbracciandone l'etica, i regolamenti e la disciplina. Alla luce di queste considerazioni si può capire non solo l'assoluto divieto di comunicarsi presso ministri non ortodossi, ma anche la reticenza dei sacerdoti ortodossi a comunicare cristiani di altre comunioni (è un gesto di rispetto della loro libertà religiosa, un rifiuto di cooptarli in modo poco pulito nel numero dei propri fedeli).
L'atteggiamento della Chiesa cattolica romana, che permette con maggiore larghezza ai propri fedeli di ricevere certi sacramenti in altre Chiese, nelle quali essa non riconosce esplicitamente la pienezza della fede cristiana (canone 844 del Codice di Diritto Canonico del 1983), è visto dagli ortodossi come un cedimento a un relativismo ecclesiologico non diverso da quello della maggior parte delle Chiese protestanti.
Pane eucaristico
La comune prassi liturgica nel primo millennio del cristianesimo richiedeva che il pane eucaristico fosse lievitato. L'usanza di impiegare pane azimo fu introdotta in epoca piuttosto tarda (IX secolo) dalla Chiesa armena, da tempo separata dalla comunione delle Chiese ortodosse. In seguito, l'uso fu adottato da tutta la cristianità latina.
Contro l'uso del pane azimo, la Chiesa ortodossa ha sempre obiettato su tre punti: 1) Il Vangelo dice che Gesù prese il pane (àrton) e non l'azimo; 2) questa pratica confonde la liturgia cristiana con gli usi ebraici; 3) il lievito nel pane è come l'anima per il corpo, e il pane lievitato simbolizza la piena umanità di Cristo, con tutte le energie viventi dell'umanità, in conformità alla cristologia del Concilio di Calcedonia (451).
Oggi la Chiesa cattolica romana fa uso di pane azimo o lievitato a seconda dei "riti", mentre la Chiesa ortodossa insiste sul mantenimento dell'antica tradizione, mostrando su questo punto una certa intransigenza (poiché gli elementi da consacrare sono di importanza fondamentale nell'Eucaristia).
Poiché il pane azimo non richiede preparazioni speciali durante il rito eucaristico, l'intera fase preparatoria della Presentazione dei doni (Proscomidia) è stata perduta nel rito romano. In tal modo, i fedeli vengono privati dell'antica usanza ecclesiastica di commemorare i membri della chiesa, vivi e defunti, e pregare che i loro peccati vengano lavati nel Sangue di Cristo, così come le particole di pane offerte per loro vengono immerse nel calice eucaristico.
La differenza tra l'ostia grande del celebrante latino, e le piccole ostie per comunicare i fedeli, è una ulteriore privazione del senso simbolico della partecipazione all'unico pane (cfr. 1 Cor 10,17).
Comunione sotto le due specie
La Chiesa ortodossa conserva l’uso di Cristo stesso che - nella mistica Cena – “prese il pane, lo spezzò...”. Alla fine del IX° secolo i Franchi, invece, impongono ai cristiani d’Occidente l’uso di gallette o cialde non lievitate al posto del pane: volevano un’altra Chiesa, una Chiesa senza sale e senza lievito o, meglio, lievitata solo dai loro dogmi.
Abbandonata così la tradizione, si diffonde l’uso di celebrare l’Eucaristia con le ostie; il calice è negato al popolo e la comunione è rarefatta. In cambio della comunione, tra 1196 e 1208, a Parigi si introduce l’uso di far vedere l’ostia durante la Messa e (attorno al 1296) l’elevazione del calice: il popolo si limita a guardare.
Mentre la tradizione liturgica latina ha sottratto il calice ai laici dall'Alto Medioevo fino al periodo seguente al Vaticano II, la Chiesa ortodossa ha sempre mantenuto, in conformità alle istruzioni di Cristo (Mt 26,27: "Bevetene tutti"), la comunione sotto le due specie.
Il Corpo e il Sangue di Cristo, mescolati nel calice, vengono solitamente amministrati ai fedeli mediante un cucchiaio. Anche i pezzi di pane che viene conservato per la comunione dei malati vengono intinti nel vino consacrato prima di essere custoditi nei tabernacoli.
Solo nella Liturgia di San Giacomo, il più antico rito eucaristico tuttora celebrato dagli ortodossi, gli elementi eucaristici vengono distribuiti separatamente, ma in ogni caso i fedeli partecipano sia dell'uno che dell'altro.
La quantità degli elementi non è importante (ai bambini non ancora svezzati può essere amministrato, in un cucchiaino, un frammento estremamente piccolo del pane eucaristico), ma rimane importante la partecipazione a entrambi.
Un paragone simbolico può servire a riportare l'attenzione all'importanza di questo dettame della Chiesa ortodossa: un corpo senza sangue è, per definizione, un corpo privo di vita.
Transustanziazione
Pur avendo sempre insistito sulla realtà della trasformazione eucaristica del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo, l'Ortodossia non ha mai voluto spiegare la maniera del cambiamento. Nella preghiera eucaristica, viene usato il verbo greco metabàllo (un termine che si traduce, in modo neutrale, con 'cambiare' o 'trasformare').
La scolastica romana medioevale, adottando la filosofia aristotelica e la sua distinzione tra 'sostanza' (ciò che fa essere una cosa) e 'accidenti' (le modalità di manifestazione della cosa stessa), introdusse e rese vincolante il termine di transustanziazione (ovvero, cambiamento della sostanza del pane e del vino con quella del Corpo e Sangue di Cristo, mentre gli accidenti visibili del pane e del vino restano quelli che erano). La terminologia, che anche secondo gli ortodossi è un modo legittimo di spiegazione del mistero eucaristico, costringe comunque all'accettazione della filosofia aristotelica che ne sta alla base.
Benché il termine 'transustanziazione' sia usato nella Chiesa ortodossa (per esempio, nel Concilio di Gerusalemme del 1672, e tuttora in catechismi e opere teologiche), il suo uso è sempre subordinato al fatto che esso sia soltanto una delle molte modalità di descrizione del mistero eucaristico.
Durata della Liturgia
Una delle caratteristiche che qualificano la Liturgia bizantina (e, in generale, tutto l'insieme dei riti sacri ortodossi) rispetto alla Messa romana è la sua maggiore lunghezza. In particolare, coloro che non vi sono abituati restano colpiti dalla frequente reiterazione delle preghiere pubbliche in forma di litania.
Anche se la maggiore lunghezza non è esagerata (a livello parrocchiale, una Liturgia domenicale non dura di solito oltre un'ora e mezza), essa contribuisce a dare un carattere di "atemporalità" alle funzioni, più consona allo spirito della celebrazione festiva.
[Modificato da Xostantinou 11/06/2012 18:23]
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Κωνσταντίνος ΙΑ’ Δραγάσης Παλαιολόγος,
Xρoνoκράτoρ και Koσμoκράτoρ
Ελέω Θεού Βασιλευς και Αυτοκράτορ των Ρωμαίων.
"Ci sono quattro grandi cause per cui vale la pena di morire: la Fede, la Patria, la Famiglia ed il Basileus. Ora voi dovete essere pronti a sacrificare la propria vita per queste cose, come d'altronde anch'io sono pronto al sacrifico della mia stessa vita.
So che l'ora è giunta, che il nemico della nostra fede ci minaccia con ogni mezzo...Affido a voi, al vostro valore, questa splendida e celebre città, patria nostra, regina d'ogni altra.
Miei signori, miei fratelli, miei figli, l'ultimo onore dei Cristiani è nelle nostre mani."
"Ed allora questo principe, degno dell'immortalità, si tolse le insegne imperiali e le gettò via e, come se fosse un semplice privato, con la spada in pugno si gettò nella mischia. Mentre combatteva valorosamente per non morire invendicato, fu infine ucciso e confuse il proprio corpo regale con le rovine della città e la caduta del suo regno.
Il mio signore e imperatore, di felice memoria, il signore Costantino, cadde ucciso, mentre io mi trovavo in quel momento non vicino a lui, ma in altra parte della città, per ordine suo, per compiervi un'ispezione: ahimè ahimè!."
"La sede dell'Impero Romano è Costantinopoli e colui che è e rimane Imperatore dei Romani è anche l'Imperatore di tutta la Terra."
"Re, io mi desterò dal mio sonno marmoreo,
E dal mio sepolcro mistico io ritornerò
Per spalancare la murata porta d'Oro;
E, vittorioso sopra i Califfi e gli Zar,
Dopo averli ricacciati oltre l'Albero della Mela Rossa,
Cercherò riposo sui miei antichi confini."
"Un Costantino la fondò, un Costantino la perse ed un Costantino la riprenderà”
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